IL GIORNO DEL PAPAVERO A LONDRA

alle 11 dell’11 novembre ogni anno il Regno Unito si ferma per onorare i caduti di tutte le guerre

testo di Jemima Levy • fotografie di Massimo Pacifico


 Erano tanti i papaveri  che fiorivano nei campi del fronte occidentale della prima guerra mondiale. E tanti finivano schiacciati sul terreno dai combattenti caduti e dalle bombe. Ecco perché alla fine della guerra il papavero fu adottato come simbolo del Ricordo. Una fabbrica che impiegava ex-militari disabili fu istituita per produrne di finti, di papaveri. Continua a farlo oggi. I pensionati di Chelsea, in giubba rossa e tricorno nero,  sono i volti iconici di questa comunità. Risiedono presso l’Ospedale Reale di Chelsea, una casa fondata, 325 anni fa, da Carlo II nel cuore di Londra. I papaveri sono venduti, per l’11 novembre, in diversi colori. Ognuno ha un significato diverso, ma tutti commemorano le perdite di guerra. I papaveri bianchi simboleggiano la pace, e quelli viola vengono indossati per onorare gli animali uccisi in conflitto.


CAMPI DI PAPAVERI PER SEMPRE
una breve storia da Le Memorie di un Capitano
Era molto vecchio, ma poteva ancora tenersi ben fermo sull’attenti davanti al monumento. La sua guerra, quella che avrebbe portato alla fine di tutte le guerre, era ormai solo una pagina sbiadita della storia. Molto pochi erano quelli che potevano ricordare, in prima persona, lo splendore della prova che aveva mandato milioni di giovani incontro alla morte. “Foraggi del cannone”, li avevano chiamati, e spediti contro le bocche da fuoco per essere macellati, e finire spezzati da frammenti di metallo che martoriavano i loro fragili corpi. La crema di una generazione fu quasi spazzata via. Era rimasto colpito dai volti dei ragazzi che aveva dovuto comandare in battaglia, quelli che non sarebbero mai ritornati. Eppure un fantasma senza nome ora portava qualche conforto alla sua mente tormentata. Al tuonare del cannone che segnalava le 11 ripensò ai campi delle Fiandre.
La battaglia era arsa quel giorno per più di due ore, senza che i contendenti ne traessero alcun vantaggio. Ondata dopo ondata dalle trincee fangose i soldati erano stati ​​spediti in campo aperto. E tanti erano stati i morti che decise che non poteva permettersi di perdere altri uomini prima che arrivassero rinforzi che forse avrebbero dato ancora qualche giorno di vita ai sopravvissuti. Ci fu una leggera pausa nella battaglia. Durante questo intervallo, un giovane soldato gli si era avvicinato chiedendo il permesso di lasciare la trincea. Guardò il ragazzo. Non poteva avere più di diciannove anni. Era questo un estremo atto di coraggio davanti al nemico o il soldato era solo così spaventato da aver voglia che tutto finisse?
“Perché vuoi gettar via la tua vita soldato? È quasi certa la morte se uscirai là fuori”.
“Il mio migliore amico è uscito più di un’ora fa, signor capitano, e non è tornato. So che il mio amico deve essere ferito e mi sta chiamando. Devo andare da lui, signore, devo farlo “.
C’erano lacrime negli occhi del ragazzo. Era come se per lui quella fosse la cosa più importante al mondo.
“Soldato, mi dispiace, ma il tuo amico è probabilmente morto. A che servirebbe  sacrificare anche la tua vita?”.
“Almeno saprei di averci provato, signore, lui avrebbe fatto la stessa cosa al mio posto. So che lo avrebbe fatto”.
Stava per ordinare al ragazzo di restare nei ranghi, ma l’impatto delle sue parole ammorbidì il suo cuore. Ricordò il terribile dolore che aveva provato quando suo fratello era morto e lui non aveva avuto la possibilità di salutarlo.
“Bene, soldato, puoi andare”.
Nonostante l’orrore intorno a loro, vide un sorriso radioso sul volto del ragazzo, come se un grande peso fosse stato sollevato dalle sue spalle.
“Dio la benedica, signore”, disse il soldato.
Fu molto tempo prima che i cannoni cadessero in silenzio per l’ultima volta, e a ciascuna parte fosse permesso di raccogliere i morti e feriti. Il capitano ricordava il giovane soldato. Frugò tra i corpi ammassati. Tanti da rendere irreale la scena davanti a lui. All’ospedale da campo esaminò con attenzione le vittime. Si trovò davanti il corpo del soldato. Era vivo, ma ferito gravemente. Si inginocchiò accanto al giovane e gli posò una mano sulla spalla: “Mi dispiace, figliolo, sapevo di aver torto a lasciarti andare”.
“Oh, no, signore!  Sono contento che l’abbia fatto e sono contento che lei sia qui adesso per ringraziarla. Vede, signore, l’ho trovato il mio amico. Era ferito, ma sono stato in grado di confortarlo fino alla fine. Mentre lo tenevo moribondo tra le mie braccia, mi guardò negli occhi e disse: “Sapevo che saresti venuto”.
Il giovane soldato ristette, tra la coscienza e l’oblio, per un po’ di tempo prima di scivolar via a sua volta. E il capitano rimase al suo fianco fino alla fine, con le lacrime che gli rigavano le guance. Solo in guerra le conclusioni felici possono essere così terribilmente tristi.
Erano le 11.00 dell’11 novembre 1918.
Mentre la tromba suonava, il vecchio capitano rivide il volto del giovane soldato. Guardando in alto, gli parve di sentire il monumento in bronzo che gli sussurrava: “Sapevo che sarebbe venuto”.

v. anche LA GUERRA DI PIERO di Fabrizio De Andrè (1969)

“Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi”.


VEN_3779VEN_3786VEN_3790VEN_3791VEN_3944VEN_3793VEN_3847VEN_3851VEN_3854VEN_3874VEN_3877VEN_3891VEN_3889 copiaVEN_3902VEN_3924VEN_3931-2VEN_3936VEN_3808VEN_3844VEN_3807VEN_3804VEN_3797VEN_3800VEN_3815VEN_3842VEN_3938VEN_3840VEN_3952VEN_3838VEN_3955VEN_3829VEN_3822VEN_3825VEN_3978 copiaVEN_3969
VEN_3991
VEN_3997VEN_3984VEN_3848VEN_4509VEN_4499VEN_4610

Copy Protected by Chetan's WP-Copyprotect.