L’EDUCANDATO DEL POGGIO IMPERIALE DI FIRENZE COMPIE 150 ANNI

un secolo e mezzo dedicato alla formazione delle donne d’Europa

testo di Giovanna Uzzani • fotografie dall’Archivio del Collegio del Poggio Imperiale (Cav. A. Cattani e figli, Foto Locchi)

GLI ESORDI

Firenze, febbraio del 1865: il Collegio femminile della SS. Annunziata lascia la sede nell’ex monastero della Santa Concezione, in via della Scala, appena destinata alle funzioni del Ministero dei Lavori Pubblici della nuova capitale del Regno d’Italia, e si trasferisce nella Villa del Poggio Imperiale, già nobile residenza medicea e lorenese e inizia una nuova vita.

La nascita del collegio laico e pubblico più famoso d’Italia, fondato con decreto del Granduca Ferdinando II, risaliva infatti al 1823, ma solo due anni dopo arrivarono al collegio le prime nove allieve, con il loro corredo di biancheria, di camicie e sottane in combrik e riscendoc, i loro corsè e copribusti, i fisciù, il mantello, i grembiuli neri, i guanti blu in seta e in lana, i mezzi guanti neri, gli stivaletti, i cappelli da estate e da inverno, da passeggio e da giardino.

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L’anima ispiratrice del progetto era stato il marchese Gino Capponi, allora trentenne, uomo politico, fine intellettuale e storico di impronta post-illuminista e democratica con numerosi e fertili contatti in tutto il continente. Il nobiluomo vagheggiava un istituto condotto con idee liberali, destinato alle future donne d’Europa, alle quali impartire insegnamenti moderni e non imporre alcuna fede religiosa. I rapporti con la città, nei primi decenni di storia dell’Istituto, non furono idilliaci, e ancora nella primavera del 1861 il quotidiano <i>La Nazione</i> si accaniva contro “quel semenzaio di patrizie” diretto dall’austriaca Jenny Plundre Marion. Poi i contrasti col giovane Regno si stemperarono e, mentre insegnanti e direttrici giuravano fedeltà al Re, nel programma scolastico delle educande si prefiguravano i nuovi modelli della donna borghese: accanto alle discipline tradizionali, si introdussero in classe discipline sino ad allora interdette all’educazione femminile come le scienze; la storia, in particolare quella contemporanea; la ginnastica; e fra gli sport il tennis, il cricket, la palla, e persino la caccia e la pesca e l’equitazione; i lavori di giardinaggio e la pratica dell’agricoltura e dell’allevamento degli animali da cortile; l’arte e la musica; la danza, il teatro e il canto; le lingue straniere; il management domestico e si aprivano laboratori d’avanguardia di chimica e fisica, utili alla verifica sperimentale delle nozioni apprese in aula.

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Entrando nel secolo nuovo, la vita del collegio fu condizionata dagli eventi drammatici dell’epoca. Negli anni della Grande Guerra, la parte sinistra della villa, cappella compresa, accolse persino un ospedale militare. In quella temperie – era la primavera del 1917 – entrava in collegio la principessa Maria Jose del Belgio, appena undicenne. Insofferente alla dura disciplina e vivacissima, era destinata a diventare la moglie di Umberto II di Savoia e l’ultima regina d’Italia.

Altre presenze di rango si susseguono negli anni del fascismo: Edda, primogenita del cav. Mussolini, è registrata fra le educande. Non resiste più di un anno. Non sopportava d’essere trattata come le altre, lei che era figlia del duce, cui peraltro, come a tutti i genitori, era interdetto l’ingresso nel collegio. Fonti attendibili fonti vogliono che perfino quando Mussolini venne a riprendersela, fosse accolto senza onori e costretto ad una lunga anticamera. Tempi cupi si annunciavano: la direttrice triestina Maria Patrizi, rea di non avere permesso alle educande di ascoltare la radio all’ora di cena mentre Mussolini proclamava la nascita dell’Impero fu rimossa dall’incarico. La nuova direttrice insediata, Rosa Scopoli, impresse alla vita della scuola un nuovo esplicito carattere fascista e di lì a poco ebbe a vantarsi con orgoglio: “Non soltanto le alunne, ma anche il personale insegnante e educativo è permeato da spirito fascista e da forte sentimento di italianità”. Una circolare interna destinata al personale e alle educande, frattanto imponeva che entro le pareti della villa fosse abolito il “lei” da sostituire col “voi”, mentre le uniformi di “piccole italiane” e “figlie della lupa”, durante le manifestazioni pubbliche, comparvero accanto a quelle storiche del collegio.

La vita delle educande, entro le mura della villa medicea, era scandita da orari rigidi per ogni attività: la sveglia mattutina alle sei, sei e mezzo o alle sette, secondo la stagione; le lezioni dalle nove alle dodici; poi il pranzo e la ricreazione nel giardino, nei boschetti, nei cortili o nelle sale. Le lezioni riprendevano nel pomeriggio dalle quindici alle diciassette; facevano seguito gli insegnamenti di pianoforte, canto e arpa; e dopo la cena delle sette e mezzo, arrivava il momento della conversazione in lingue straniere. La giornata si chiudeva con la preghiera delle nove e mezzo e con il meritato riposo nelle camerate, tra stucchi e affreschi rococò.

I pasti erano semplici e nutrienti: caffè e latte al mattino, che poteva essere sostituito da caffè ed uovo; o brodo con uovo. A pranzo erano generalmente serviti una minestra, due piatti di carne con contorno, uova e pesce nei giorni di magro, frutta o dolce. Simile era la cena, ma con una seconda portata più frugale.

Quando si arriva alle soglie della Seconda Guerra, anche al Poggio il cibo comincia a scarseggiare, sebbene, grazie agli orti, agli allevamenti di polli, di conigli, di api, anche in quegli anni duri le ragazze riuscissero a mangiare per tre volte al giorno. Nel marzo del 1942 una ragazzina delle scuole medie annotava nel suo diario: “Altri odori! Quello pungente della minestra riempiva il refettorio, e quello delle verdure e degli straccetti di carne nodosa che spesso finivano nelle tasche degli ampi grembiuli… l’odore acido degli escrementi di un piccolo allevamento di coniglietti si mescolava a  quello, delicato, delle violacciocche in un minuscolo fazzoletto di terra miracolosamente germogliante”.

Arrivarono poi i bombardamenti alla Villa, mentre si costruiva un rifugio antiaereo per oltre duecento persone; la scuola si apriva anche all’esternato, per permettere alle ragazze fiorentine rifugiate nelle campagne di frequentarne i corsi. E, siccome la storia non conosce ostacoli, da settembre a ottobre del 1943 la villa fu occupata dall’aviazione tedesca e, nel 1944, anche gli americani cercano di insediarsi negli ambienti ormai deserti e fatiscenti, abitati soltanto da due sole educande trattenute in collegio dalle disgrazie familiari.

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NOVECENTO: ATTO SECONDO
Nel fervore del dopoguerra il Collegio si ripopola, e arrivano nuove allieve, talvolta straniere o figlie di italiani residenti all’estero, talvolta figlie di ex partigiani o di chi aveva fatto fortuna con la guerra, negli storici saloni convivono orfane di guerra e figlie di aristocratici e borghesi. La vita al Poggio riprende il suo corso normale. Si mete in funzione una radio centralizzata, si acquista un piccolo “Ape” per portare la spesa alle cucine, si amplia l’infermeria, si restaurano gli spazi devastati dalle granate. La scuola si apre alla collaborazione con associazioni benemerite, dalla “Croce Rossa” alla “Società Protettrice degli animali”. Durante l’annuale fiera di beneficienza, le educande vendono i loro manufatti: ricami e imparaticci, ceramiche e pitture. La direzione è intransigente riguardo a disciplina, ordine e puntualità: così le alunne possono sfogliare riviste come “Oggi”, ma solo dopo un’opportuna censura. Si praticano molti sport, dalla scherma al pattinaggio, dal lancio del giavellotto all’equitazione. E non meno cura si dedica al lavoro manuale e alle attività all’aria aperta e nei poderi. In particolare l’educazione musicale, impartita durante l’intero curriculum scolastico, è incentrata sui repertori che spaziano dai classici a quelli folkloristici.

L’uniforme è alquanto complessa: le ragazze indossano una “tasca” di cotone bianco sopra il sottabito e poi il collettino, la divisa, il grembiule nero, allacciato dietro, una gonna a pieghe larghe con una apertura che permette di infilarci la mano per arrivare alla tasca. E infine una cintura bianca e un grande fiocco dietro, di colori diversi, che distingue le alunne per corsi di studio: verde per le elementari e medie, rosso per il ginnasio, blu per il liceo.

Il dopoguerra vede il continuo accrescersi delle proposte didattiche e del numero delle educande. E all’iniziale ginnasio, ripartito nel 1945, fa seguito l’apertura di un giardino d’infanzia nel 1952. Il riscaldamento centralizzato entra nell’istituto, nelle sue camerate, nelle aule e nelle sale monumentali, la vita al Poggio diviene più agiata e moderna. Si istituiscono nuovi percorsi di studio, come un moderno liceo linguistico nel 1960 e, all’indomani dei fuochi sessantottini, anche entro le mura dell’antica Villa medicea, qualcosa cambia nei ritmi di vita e nelle abitudini quotidiane, mentre nasce il nuovo liceo scientifico; poi nel 1994, si istituisce un corso di studi sperimentale: il classico europeo, tuttora in auge.

 

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OGGI
Grazie al lavoro della Fondazione Memofonte ora, sul sito del Poggio Imperiale, questa storia di un passato prossimo è disponibile on-line, e, grazie ad un archivio informatizzato, sarà possibile ricostruire le vicende delle tante educande che hanno vissuto e studiato nel collegio, dal 1825 in poi.

Ma un’altra attività distingue ora la vita della scuola: da due anni un gruppo di studenti volontari del Liceo studiano e si preparano per acquisire la licenza di guida della villa mediceo lorenese e dei suoi tesori. Il viaggio virtuale comincia a ritroso dall’età napoleonica, quando l’architetto di fiducia di Elisa Baciocchi, Giuseppe Cacialli, caposcuola del neoclassicismo toscano, interviene sulla facciata già neoclassica, eleva il portico di un piano, copre la loggia del peristilio, disegna il frontone con il grande orologio centrale e due Vittorie alate. Costruisce inoltre i due avancorpi laterali, a sinistra la bella cappella neoclassica, a destra il corpo di guardia. Invero le origini della villa risalgono al primo Rinascimento, quando la “casa da signore” di Pietro Baroncelli passa ai Pandolfini, poi ai Salviati e quindi entra fra i beni confiscati da Cosimo I Granduca di Toscana nel 1564. Se ne prende cura Isabella, la colta figlia di Cosimo, che qui raccoglie le proprie collezioni d’arte e il primo nucleo di statue antiche. Ma occorre aspettare il 1624 perché la villa acquisti l’importanza e il titolo di “Imperiale”, per volontà di Maria Maddalena d’Austria, sposa di Cosimo II de’ Medici, che, con editto granducale, sottolinea l’identità della Villa come palazzo del potere regnante della sorella dell’Imperatore Ferdinando II d’Austria e futura sede di rappresentanza delle granduchesse di Toscana. Poggio Imperiale certamente non costituì il malinconico ritiro per la vedova del defunto granduca, fu invece una comoda ed elegante villa suburbana vicinissima alla città, dove dedicarsi, lontano dall’ufficialità della corte, all'<i>otium</i> e ai piaceri dell’arte e della vita in campagna. Da quel momento la Villa divenne infatti la residenza simbolo delle donne Medici, vera e propria estensione della corte, non inferiore per magnificenza a Palazzo Pitti.

E’ l’architetto Giulio Parigi  che ampia la villa, costruisce ad occidente il quartiere per i granduchi mentre gli interventi di decorazione sono affidati al caposcuola della pittura fiorentina seicentesca Matteo Rosselli e alla sua bottega: ecco il ciclo di affreschi dedicati alle eroine bibliche, alle imperatrici e regine, alle vergini martiri, vera e propria storia di genere per immagini.

POGGIO IMPERIALE 20Alla stagione di Maria Maddalena succede quella di Vittoria della Rovere, sposa del Granduca Ferdinando II de’Medici, che porta in dote a Firenze i grandi tesori d’arte della famiglia urbinate, oggi agli Uffizi; è Vittoria ad intervenire nella Villa del Poggio Imperiale ampliando l’architettura con gli interventi firmati da Pietro Tacca nel cortile di ingresso, poi con la Sala del trono, oggi refettorio del collegio, affrescata sontuosamente dal pittore romano Francesco Corallo. Dopo l’estinzione della casata medicea con “l’inetto e scioperato Giangastone” – così lo definisce Matteo Marangoni nella prima monografia dedicata al Poggio – è il 1765 quando il diciottenne Pietro Leopoldo di Lorena diviene nuovo granduca di Toscana, s’innamora del Poggio Imperiale, costruisce i quartieri del primo piano, il salone delle feste, realizza lo straordinario quartiere cinese con parati originali d’eccezionale bellezza e cineserie d’ogni genere, dà alla villa il decoro illuminista di una moderna corte europea, ornata di leggiadria ispirata al rococò francese negli ambienti privati mentre quelli ufficiali sono invece decorati con colto e nobile gusto neoclassico. E al piano terreno, Pietro Leopoldo chiede all’architetto Gaspare Maria Paoletti di realizzare grandi spazi aperti sul giardino, sale di intrattenimento e di rappresentanza piene di luce, ornate con paesaggi boschivi, scene di caccia, portici a trompe l’oeil, e di rappresentare personaggi mitologici e figure silvestri; fino alla celebre Segreteria del Principe, con affreschi dedicati al tema del Buon Governo: lì erano accolti gli illuministi toscani, i ministri di stato e lì, si vuole, venne firmata l’abolizione della pena di morte, per la prima volta nella storia.

Gli studenti di oggi vivono ogni giorno questi ambienti con un senso di appartenenza che non tarda a manifestarsi sin dai primi mesi dei corsi di studio.  I ritmi, i modelli, gli stili di vita, gli indirizzi sono quelli di una normale scuola secondaria inferiore e superiore dello Stato italiano del 2015. Quello che tuttavia si percepisce è la consapevolezza di vivere in un luogo colmo di testimonianze artistiche pregevolissime e carico delle tante storie individuali e collettive che tra quelle mura hanno segnato centocinquanta anni di scuola italiana.

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