PALAZZO TE A MANTOVA

La dimora dei lucidi inganni

testo di Giovanna Uzzani • fotografie di Massimo Pacifico

C’è un’isola lungo il corso del fiume Mincio, vicino all’antica Mantova che In origine era chiamata Teieto o Tiglieto o luogo dei tigli, poi il suo nome fu drasticamente abbreviato in Te. Si distende verdeggiante, collegata con un ponte alle mura meridionali della città, nei pressi di Porta San Sebastiano. Agli inizi del Cinquecento fu eletta dalla famiglia Gonzaga a luogo, appartato, di svago dove ospitare anche gli amati cavalli di razza. Nell’ottobre del 1524 il brillante ed estroso allievo di Raffaello, Giulio Romano, giunge in città, invitato da Federico II Gonzaga. Il marchese fornisce al pittore una dimora, lo colma di regali e, donatogli uno dei suoi cavalli favoriti, cavalca spesso con lui fino all’isola. In una di queste occasioni equestri Giulio riceve l’incarico di ristrutturare le scuderie e di creare un palazzo per l’ozio del principe, adatto a ritemprare le forze sfruttando le amenità del luogo. Nasce così il Palazzo Te a Mantova, o il “Palazzo dei lucidi inganni”, che sarà cornice di feste libertine e luogo del sogno e dell’ozio letterario, per il quale, nella magnificente bizzarria e bellezza delle sale, la decorazione pittorica non poté che attingere al repertorio di simboli e allusioni dell’antica mitologia.

Giulio concepisce e realizza con estrema lucidità per Federico un susseguirsi di sale grandiose: la Sala del Sole, con il soffitto decorato dall’avvicendarsi nel cielo degli astri maggiori;  la Sala dei cavalli, ove esibisce a dimensione reale “i bevitor de vento”, destrieri della razza incrociata dai Gonzaga e celebrata dalle corti d’Europa; la camera di Amore e Psiche, densa di allusioni al gioco delle feste e degli amori, coi suoi riferimenti alle Metamorfosi di Ovidio e alla favola antica di Apuleio; la Sala dei Venti, costellata di segni zodiacali; la Sala delle Imprese, che elenca gli emblemi della dinastia, enfatizzando quello più caro a Federico, la salamandra, che si torce per un amore che non prova: Quod huic deest me torquet.

Nel percorso cresce lo stupore: ovunque Giulio dilata i volumi dei corpi, enfatizza gli effetti illusionistici, sfida l’osservatore con le sue aberrazioni prospettiche, utilizza colori contrastanti e luci radenti.  Si è già rapiti quando si arriva alla camera dei Giganti, l’ambiente più visionario del Palazzo dal punto di vista delle proporzioni e delle invenzioni stilistiche. Qui il pittore crea uno dei capolavori assoluti del Manierismo europeo. Le volte si squarciano, le colonne si spezzano e gli enormi Giganti, nelle più svariate posture e con espressioni grottesche, franano al suolo, fulminati da Zeus.

 L’ispirazione letteraria del mito dei Giganti attinge alla Teogonia di Esiodo, così come ai Fasti e alle Metamorfosi di Ovidio. Le divinità dell’Olimpo, hanno vinto la battaglia contro la stirpe dei Giganti che aveva tentato di scalare il monte sacro per sostituirsi agli dei. In questa battaglia cosmica, solo il trono di Zeus, nell’alto del cielo, sembra essere immerso nella quiete. Il tema si offre a un’interpretazione allegorica, in chiave politica: in Zeus è così riconoscibile l’Imperatore Carlo V, trionfante sui nemici e sugli eretici, e nei Giganti ribelli, puniti per avere tentato l’assalto all’Olimpo, è possibile individuare i Principi italiani in rivolta ai danni dell’Impero. Ma oltre l’esegesi, siamo trascinati al centro di una spaventosa catastrofe e sembra che l’intera architettura stia crollando, a causa del cedimento della serliana, mentre alcuni dei Giganti, a sinistra e a destra dell’osservatore, paiono schiacciati o, con l’osservatore stesso, in pericolo sotto il rovinare delle macerie. Lo sguardo continua a muoversi senza posa da un punto all’altro della stanza, non trovando pace, grazie al moltiplicarsi delle fughe prospettiche. Tanto più efficace doveva essere in origine l’effetto illusionistico perchè il pavimento della camera era costituito da un acciottolato di pietre di fiume che aumentava la suggestione dell’ambiente, mentre il fuoco che ardeva nel camino illuminava le pareti e proseguiva, nella finzione pittorica, con le fiamme dipinte che escono dalla bocca del gigante Tifeo, alludendo alle eruzioni dell’Etna, in un magico trompe l’oeil.

A uno sguardo attento non sfugge che ad altezza d’uomo corrano lungo la camera molte scritte graffite che, nell’occasione dei restauri degli anni ’80, i paleografi hanno trascritto, contando oltre settecento iscrizioni datate dal Cinquecento alla metà del Novecento.  I solchi chiari lasciati sugli intonaci dai vandali di tutte le epoche spiccavano per il loro candore che contrastava con la policromia dell’affresco quando l’Istituto Centrale del Restauro decise di non cancellarli, ma di colmarli di stucco e ritoccarli con l’acquerello. Si è ottenuto di restituire lettura unitaria alla grandiosa invenzione pittorica di Giulio, senza eliminare tracce ormai secolari, intimamente legate alla storia dell’ambiente. Non mancano nel repertorio le firme dei soldatacci acquartierati dopo il sacco cinquecentesco nella villa trasformata in caserma, testimonianza vivida di quei “lanzi” arrivati dall’Austria e dalle terre slave sottoposte all’Impero. Altri soldati di altre guerre hanno lasciato, sui Giganti, nei secoli, memoria di sé con scritte a firma di caporali, ufficiali, musici di bande militari. Non mancano illustri cognomi di famiglie patrizie mantovane. Altri esponenti di casati patrizi, sono evocati da qualche rancoroso e sboccato milite, forse per una punizione mal digerita. Per non parlare delle tracce di sospiri amorosi di tal “satirus veronensis” e degli innamorati che, accanto alla data 1639, tracciano le loro iniziali V.D, H.H. e un cuoricino.

La Camera dei Giganti ha continuato così, nella sua singolarissima storia ad alimentare ilarità e bestemmie, meraviglia e sconcerto, non mancando mai, anche ai nostri giorni, di ammaliare il visitatore con un fascino che non ha eguali.

 

 

 

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